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CLONI

Dodici volti, undici dei quali sono di replicanti. Tutti in primissimo piano, tutti senza aprire gli occhi. Una via cosmetica alla perfezione. Radiografata mentre si incrina, olio su tela, per variazioni minime...Non basta chiudere gli occhi, quando scendono le lacrime. Così come non basta, per scongiurare il demone della deformazione fisica, approssimarsi ad un canone estetico a priori seduttivo. Quello proposto da Cosimo Epicoco, in una personale dall’impianto solido e stringente, è il primissimo piano di una sequenza –attualissima– di volti che ostentano un’idea cosmetica della perfezione. Undici replicanti undici e un solo originale – ma forse importa poco capire qual è – che prendono tutti a liquefarsi mentre, piangendo, nascondono lo sguardo.
La perizia pittorica è smagliante eppure affatto compiaciuta –eccoci al nuovo che avanza, l’olio su tela– e i lineamenti campeggiano ravvicinati, ora solenni ora mobilissimi, come indagati attraverso uno spioncino. Se l’iperrealismo è alle spalle, non lo è di certo l’inquietudine del dato oggettivo acciuffato senza fare sconti; sorprende, qui, che quel dato sia proprio una tipologia dell’avvenenza umana, riconoscibilissima eppure delineata con pochi, semplici colpi. E infatti non c’è poi molto, di ciò che si possa soltanto elencare. C’è il rosso incandescente del lucidalabbra, e c’è il nero del rimmel. Ci sono, ovviamente, il silenzio e la magia di un viso prominente eppure distante, che vorrebbe negarsi. E c’è, infine, uno strano incarnato, freddo e insieme arroventato, di quel colore livido e indecifrabile che potrebbe essere un viola puro.
Ciò che conta, allora, è la tensione offerta dal punto di vista che distorce, il fatto che qualcosa debba andare irrimediabilmente perduto, progressivamente, tra un quadro e l’altro, in quella frazione di secondo che non si sa se appartenga a chi osserva o a chi ha deciso, dalla tela, di non guardare più. Così, in un incedere necessariamente circolare, impaginato ad anello, a sfigurare questi volti asettici interviene l’aritmia, congegnata come un’estenuata ripresa video, di una ricognizione vera e propria.
Insomma, qui si ragiona del tempo e dello statuto necessariamente pulsante dell’immagine, ma senza proporre la riflessione concettuale come un esercizio sterile e ostentato. E il clone del titolo, dal momento che il tempo che passa è sempre tempo che si vede, diventa propriamente colui che ha deciso di perderla, la faccia: l’uomo che, pur di farsi bello, non esita a chiudere gli occhi. (Nota critica a cura di Pericle Guaglianone)

Gli undici Cloni che Mimmo ottiene dal prototipo figurativo del volto umano che origina la sequenza delle dodici tele vogliono esprimere emozioni a loro negate in quanto privi d’individualità personale: lacrime solcano i loro volti schiacciati in primo piano, come già in Distanze del 2001, risolti con lo stesso splendore pittorico degli anni informali, oggi caricato di significati necessariamente oggettivi per indurci a riflettere. Come suggerisce il segno rosso che delimita lo spazio della tela che racchiude il solo volto umano per distinguerlo da quello dei Cloni replicanti dipinti sulle altre undici tele. Così facendo Epicoco, differenziandolo dagli altri, ne rafforza l’identità umana, ricordandoci anche che con un segno analogo, anni prima tracciato col gessetto su una delle strade della terra di Puglia, già allora rifiutava la condizione del pensiero negato o della lingua tagliata rivendicando il diritto ad un suo piccolo spazio, da sempre da lui riservato all’ irrinunciabile volontà di comunicare. (Nota critica a cura di Ivana D'Agostino)
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